“Con il nostro furore di creature interrotte”. Storie dal Tempio - Pangea

2023-01-05 18:04:33 By : Mr. William Wen

Mi sembrava di assistere alla vita indulgente, allora sedevo al Tempio. Per guardarla. La vita che si riassumeva in un battito di ciglia. Assistevo alla vita degli altri, non si apriva vibrante come il riverbero e le ombre tra i rami dei pioppi d’intorno una fontana, impaziente, nella valle degli Iblei; ivi tornavo con i pensieri quasi a trovar ristoro, dopo un lungo pellegrinaggio, verso quale tabernacolo non volevo nemmeno sapere. Non si apriva come le ali delle taccole su per il Cielo, il Cielo immemore di fremiti mondani, preoccupazioni industriate a far di noi un sussiego di presunzione e eccezionali abbagli.

Le anziane osservavano il passeggio, ordinate, il riserbo delle capre che vidi nei campi di zia Norina, a Lugnano, la prima volta. Una disciplina lanuginosa, proprio come le anziane, le vedove.

Quando troverò un marito? Riflettevo, il mulinello dell’identica domanda risaliva in un gorgoglio amarissimo, un fluire di inopie, la curiosità che le vecchie mi proponevano strizzando le medesime argomentazioni, stringate, le loro congiunte alle mie. Ma io non ne voglio un altro, mi difendevo.  

Io non sono fatta che per me. Il crogiolo dell’inutilità, la perfezione dell’indolenza, l’incapacità anaffettiva a operare il male.

L’altro mi indicasse pure il colore dei miei occhi, gialli come i castagni o i faggi in un parchetto milanese.

O verdi se dimoro sotto la frescura di un ulivo. Io amo gli ulivi. Gli ulivi sono la madre. Il ventre che si schiude nel tronco, il ritorno al feto tra le sue braccia. Il tedio monocorde e amniotico. Un ritmo blando che andiamo ancora tentando, con il nostro furore di creature interrotte. Non riuscite. Invalidate perché altri ne disponessero, perché in esse si compisse una mansione superiore. L’embrione di qualcosa mai esplicato è la riserva del mio abbordabile talento. Il talento che mi compete è una congerie di parole.

Sulla valle dimorava una quercia secolare. Lei sola, stante. Ecco la congerie di parole. La quercia e il silenzio, circondati dal pascolo. La Sicilia è una concentrazione di talune mestizie. La Sicilia è violenta se la sorprendi dalla punta del maniero, le agavi in prospettiva sono cime affilate verso trame e ondine sfuggenti. Il mare blu si ritira e con voracità risorge, è un exploit con un tempo feroce, dissimile dal tempo della quercia, stante e discreta. Il ritmo amniotico di quest’ultima versus la violenza che fiancheggia le rupi dabbasso, oltre i tornanti, ai piedi di un monte.

Tornavo al Tempio per riposare. Alcune memorie erano vite sepolte, semplicemente sepolte, che rinfocolavano altre, ancorché disseppellite, con un Requiem da consegnare un dì, al mio vezzo di raccogliere parole. Infilarle in una cesta. Trasformarle in fiori. Può darsi, consolare qualcuno. No, salvarlo, no. Consolare. Tutti, tranne me. Sedersi sulla panchina del Tempio in un giorno di settembre, le assi divelte, la precarietà e il disordine, era la configurazione di un castigo famigliare, oltreché uno strano modo di riposare.

Johannes scendeva giù dal vicolo, poggiato al bastone, sempre più chino e stanco. La luce del crepuscolo, dorata e gentile, sfiniva sulla chiesa incastrata tra i viottoli del dedalo. Sbatacchiava un’ombra leggera sui palazzi di fronte da cui emergevano gli indizi millenari e le decorazioni di un capitello dorico, un colonnato di monoliti e una cella mediana, con sull’esergo una iscrizione araba.

Settembre mi intristiva, ma anche ottobre. Novembre. Sempre: mi intristiva. Gli avverbi mi rendono triste. Disperata. La vita sguarnita di avverbi avverte una qualche facilità di impresa.

Ma poi Johannes mi sorrideva senza voce, con il labiale, sillabava: Scurpiddu prezziusu.

Mi sono tenuta su. Sono stata brava. Potevo non farcela. Non sopravvivere. Inchiodata al tradimento. L’abbandono e il tradimento. Un fatto reiterato. Privo di assoluzione.

Così credo mi abbia trattenuto. Il braccio. Da su, dal cornicione. Ma noi non ci gettiamo mai nel dirupo.

Le adescatrici di parole. Intessono ceste dentro cui riordinano petali, fazzoletti bianchi e ricamati, gomitoli di lana dai colori pastello. Li riversano sul mondo, ipoteticamente. Non sono cattive.

Forse le border amano i colori pastello. Educate. Infedeli. Piuttosto al senso di sé. L’individualità disfunzionale. Dicono. La chiamano così insomma.

Di che colore sono i miei occhi?

Ma io so dove andarmi a riposare. In quel giorno d’estate. Il vento frugava le rocce argillose della piccola isola che rigettava nel mare fumeggiante. Le onde si inseguivano impetuose. Il vecchio colone vendeva vino buono, delle vigne di Pachino. Ero una ragazza. Ero forte, come lo sono le ragazze in un’età in cui tutte le stagioni si annunceranno similmente alle rondini di primavera, arriveranno, sgusceranno dalla cova, e la chiameranno vita o amore o non saprei. Come possiamo chiamare la vita?

Vita. Possiamo chiamarla la vita. Quando il sole inondava la costa e i terrazzamenti sui colli brevi, quando i giardini di agrumi risplendevano nel chiarore stupefatto; quando il verde umido delle foglie dei pioppi, umidi per quanta luce bruciante vi confliggeva, sembrava disciogliere gli eccessi in chiaroscuri discreti o nelle disarmonie gloriose, la diseguaglianza della fissità rupestre e la vulnerabilità delle acque, il blu compatto e l’argine rossastro e franoso della proda.

E il vino del colone quel giorno d’estate, quando ero una ragazza e la vita si annunciava similmente alle rondini di primavere o le cicogne sui fili dei tralicci per indicare una nuova stagione, il vino del colone aveva il sapore della terra, asprigno dell’uva buona, il tino rimestava, quando la vita potevano chiamarla vita.

Detta anche la compagnia degli errori, senza dirittura. Potrebbe essere la chiave di violino, la stagione infingarda. Ma a cercare il suo contrario, realizzeremmo all’istante che c’è qualcosa di inesatto nel concetto stesso di felicità.

Concetto vago, inapplicabile, strutturato per una concertazione di almeno due soggetti.

La vita è altrove, scriveva Kundera, la vita piena di sé. Un sé smarrito, di solito. La vita si aggirava in luoghi a me sconosciuti fino a che non l’avessi incontrata, come la massaia di Scurpiddu di Capuana, nella gran tristezza, perché finalmente, sì finalmente direi, prossima alla sua fine.